10 anni senza Marco Anghileri
Inviato: gio apr 04, 2024 12:11 pm
“Mi sembra ieri quel giorno di Marco, ma sono passati dieci anni”.
In quel momento già così lontano Vale era una cronista di alpinismo, pronta per scrivere dell’ultimo successo alpinistico di Marco Anghileri: da solo e in inverno sulla via “Jori Bardill” del mitico Pilone Centrale del Freney.
Le stavo già raccontando tutto di quella scalata a cui ero molto legato e che dieci anni prima avevo studiato a memoria per tentarla in solitaria, in estate. Nei fatti di allora, con uno zaino enorme mi ero spinto fino al ghiacciaio del Brouillard, sopra il Rifugio Monzino, per poi capitolare per le spalle piegate da uno zaino enorme e per quelle strisce di nuvole alte che giocavano a mettermi in testa i dubbi per il giorno dopo. La motivazione era alta ma evidentemente non era sufficiente. Avventurarsi in quel luogo mitico, tragico e lontano chiamato Freney chiedeva a testa e fisico il 100 per 100.
Raccontavo la “Jori Bardill" e pensavo a Marco, mio coscritto, e al suo equilibrio, che consideravo una cosa non comune: lavoratore, padre di famiglia e alpinista “di punta”, che passati i quarant’anni di età aveva trovato ancora la spinta per andare su di là, in inverno e soprattutto senza l’aiuto di nessuno. Nei miei pensieri un alpinista che andava a vivere un’avventura del genere doveva avere la testa libera da ogni pensiero “disturbante”.
Tempo prima a Clusone feci una conferenza insieme a Marco sull’alpinismo solitario. Io e lui invitati in coppia a parlare delle proprie motivazioni e dei rispettivi successi. Un risultato che per il pubblico era uguale - la “prima solitaria” - ma diverso per come era stato vissuto e riuscito. Le mie solitarie erano un’operazione veloce, una bolla temporanea ed esaltante, ma da cui scappare velocemente, fortemente voluta ma che doveva finire il più presto possibile. I bivacchi mi avrebbero ucciso la spinta, cercavo di evitarli come la peste, troppe ore di inattività a riflettere sul "cosa ci faccio qui". Marco invece raccontava del piacere nello stare lì, al freddo e nella solitudine, gustandosi un’azione lenta e inesorabile sulla montagna. Voleva sempre comunicare questa sua bolla di felicità, come quel suo ultimo sms dal Freney. - “sono nel posto più bello del mondo” - o come quelle telefonate entusiaste agli amici lecchesi che ho potuto ascoltare quando un po’ di inverni prima era in lotta con i camini ghiacciati della “Solleder” in Civetta.
Vale preparava il pezzo di Marco e della sua salita annunciata “fatta”, appena conclusa, quasi già archiviata. Qualcuno sui social ne aveva già decantato gli epici contorni, così ci portammo avanti nel racconto. Immaginavamo Marco già in discesa a Chamonix, accolto dal padre Aldo, o forse era già a casa, come riportava qualche testata giornalistica che lo dava già in arrivo a Lecco. Domattina montagna.tv avrebbe annunciato un’altra impresa a firma Anghileri, una tradizione iniziata dal padre Aldo e proseguita con Marco e il fratello maggiore Giorgio, immenso e folle talento scomparso per un banale incidente in bici.
Ma tutto ciò non era vero.
In cima al Pilone del Freney Marco per pochissimo non ci era arrivato e il giorno dopo arrivò la tragica notizia del suo ritrovamento. Da giornalista Vale non la prese affatto bene. Non aveva pubblicato ancora nulla ma era stata “truffata” da quella che oggi sarebbe stata chiamata “fake news”.
Pochi giorni dopo si sfogò con un suo editoriale che intitolò: "Quando la fretta di comunicare e di piangere lasciano l’amaro in bocca"
https://www.montagna.tv/57852/marco-ang ... FuNYuQcR1P
"Non si tratta di voler puntare il dito o distribuire colpe, quanto piuttosto di fermarsi a riflettere sulle conseguenze di una tempistica sbagliata. Una riflessione che storicamente spetta ai giornalisti, a cui si chiede – giustamente – di saper dosare velocità di pubblicazione con il rispetto, sempre dovuto, verso chi quella notizia la subisce. Perché le notizie possono fare male, soprattutto quando riguardano una morte" (cit.)
In quel momento già così lontano Vale era una cronista di alpinismo, pronta per scrivere dell’ultimo successo alpinistico di Marco Anghileri: da solo e in inverno sulla via “Jori Bardill” del mitico Pilone Centrale del Freney.
Le stavo già raccontando tutto di quella scalata a cui ero molto legato e che dieci anni prima avevo studiato a memoria per tentarla in solitaria, in estate. Nei fatti di allora, con uno zaino enorme mi ero spinto fino al ghiacciaio del Brouillard, sopra il Rifugio Monzino, per poi capitolare per le spalle piegate da uno zaino enorme e per quelle strisce di nuvole alte che giocavano a mettermi in testa i dubbi per il giorno dopo. La motivazione era alta ma evidentemente non era sufficiente. Avventurarsi in quel luogo mitico, tragico e lontano chiamato Freney chiedeva a testa e fisico il 100 per 100.
Raccontavo la “Jori Bardill" e pensavo a Marco, mio coscritto, e al suo equilibrio, che consideravo una cosa non comune: lavoratore, padre di famiglia e alpinista “di punta”, che passati i quarant’anni di età aveva trovato ancora la spinta per andare su di là, in inverno e soprattutto senza l’aiuto di nessuno. Nei miei pensieri un alpinista che andava a vivere un’avventura del genere doveva avere la testa libera da ogni pensiero “disturbante”.
Tempo prima a Clusone feci una conferenza insieme a Marco sull’alpinismo solitario. Io e lui invitati in coppia a parlare delle proprie motivazioni e dei rispettivi successi. Un risultato che per il pubblico era uguale - la “prima solitaria” - ma diverso per come era stato vissuto e riuscito. Le mie solitarie erano un’operazione veloce, una bolla temporanea ed esaltante, ma da cui scappare velocemente, fortemente voluta ma che doveva finire il più presto possibile. I bivacchi mi avrebbero ucciso la spinta, cercavo di evitarli come la peste, troppe ore di inattività a riflettere sul "cosa ci faccio qui". Marco invece raccontava del piacere nello stare lì, al freddo e nella solitudine, gustandosi un’azione lenta e inesorabile sulla montagna. Voleva sempre comunicare questa sua bolla di felicità, come quel suo ultimo sms dal Freney. - “sono nel posto più bello del mondo” - o come quelle telefonate entusiaste agli amici lecchesi che ho potuto ascoltare quando un po’ di inverni prima era in lotta con i camini ghiacciati della “Solleder” in Civetta.
Vale preparava il pezzo di Marco e della sua salita annunciata “fatta”, appena conclusa, quasi già archiviata. Qualcuno sui social ne aveva già decantato gli epici contorni, così ci portammo avanti nel racconto. Immaginavamo Marco già in discesa a Chamonix, accolto dal padre Aldo, o forse era già a casa, come riportava qualche testata giornalistica che lo dava già in arrivo a Lecco. Domattina montagna.tv avrebbe annunciato un’altra impresa a firma Anghileri, una tradizione iniziata dal padre Aldo e proseguita con Marco e il fratello maggiore Giorgio, immenso e folle talento scomparso per un banale incidente in bici.
Ma tutto ciò non era vero.
In cima al Pilone del Freney Marco per pochissimo non ci era arrivato e il giorno dopo arrivò la tragica notizia del suo ritrovamento. Da giornalista Vale non la prese affatto bene. Non aveva pubblicato ancora nulla ma era stata “truffata” da quella che oggi sarebbe stata chiamata “fake news”.
Pochi giorni dopo si sfogò con un suo editoriale che intitolò: "Quando la fretta di comunicare e di piangere lasciano l’amaro in bocca"
https://www.montagna.tv/57852/marco-ang ... FuNYuQcR1P
"Non si tratta di voler puntare il dito o distribuire colpe, quanto piuttosto di fermarsi a riflettere sulle conseguenze di una tempistica sbagliata. Una riflessione che storicamente spetta ai giornalisti, a cui si chiede – giustamente – di saper dosare velocità di pubblicazione con il rispetto, sempre dovuto, verso chi quella notizia la subisce. Perché le notizie possono fare male, soprattutto quando riguardano una morte" (cit.)